27 novembre 2009

PER LA BELLEZZA DI UNA LATTA MATTA

Il Campanile del Duomo sta per suonare le quattro del mattino: mancano pochi minuti al cambio dell’ora.

Davanti a lui, in Piazza San Passaggio, tra il silenzio dei dormienti, si sente solo la risata di una lattina:

è la Latta Matta che si esibisce in capriole, vuota e spensierata. Ad ogni colpo sul selciato si allontana sempre più dalla sua forma originaria, ma… più incontra il suolo, più cambia, e tanto più la Latta Matta diventa allegra.

Il Campanile la osserva e non proferisce parola. Sta zitto: non preferisce una parola ad un’altra, perché non sa scegliere che cosa dire davanti a una bellezza così esotica che non si può esprimere ad opinioni.

E pensare che,

fino ad un istante fa,

quel monolito rinascimentale ammirava solo i palazzi che raggiungevano la sua altezza (ma senza superarla). Stimava quelli in cui si poteva specchiare e rispecchiare ininterrottamente: in cui vedeva riflessa la sua centenaria staticità, “sintomo di fermezza e sani principi quattrocenteschi”.

Ora, nel guardare la Latta Matta, Il Campanile del Duomo sta rischiando addirittura di perdere il tempo e quando le lancette del suo orologio segnano le quattro, l’arrivo di una nuova era lo sorprende senza fargli paura:

per la prima volta – e non è una battuta – Il Campanile sente le sue campane.

Solo oggi non gli sembrano stonate: è in sintonia, se non con l’intero mondo, almeno con qualcuno di quel mondo così vasto. E dopo i quattro rintocchi (per l’emozione niente affatto cadenzati), il Campanile alza lo sguardo verso il cielo, ma

non cerca un dio: intona una preghiera

 

 

 

(La Latta Matta sul selciato continua il suo viaggio senza posa: si abbandona ad un tombino scoperchiato, il quale non fa scudo a quella profonda intrusione).

24 novembre 2009

UN’IMMAGINE INGOMBRANTE – seconda parte

Nevica e resto ferma davanti a quei due, senza sapere che cosa sto aspettando. Perché rimango lì, immobile?

A ORE DIECI, inaspettatamente, l’uomo grasso in frac e l’uomo magro in stracci cambiano direzione al loro giro d’affari:

l’uomo grasso svuota il cappello nelle mani del suo compagno; quest’ultimo si ritrova con un tesoro sempre maggiore da distribuire.

Se l’uomo magro ama essere generoso, non capisco a questo punto perché io non dovrei assecondare i suoi desideri… E poi I Due Perfetti Sconosciuti si sono frapposti tra me e la mia foto ideale, me l’hanno rubata: in qualche modo mi devono pagare per il tempo sottratto.

Mi avvicino

e, affinché le mie mani siano libere di prendere il denaro, depongo la Canon in tasca, pur avvertendo un senso di colpa. Poi allungo il mio palmo destro verso l’uomo magro ed egli, subito, mi dà UNO, DUE, TRE pezzi da venti, senza neanche guardarmi negli occhi

(quasi quasi comincio ad essere contenta della mia foto mancata).

L’uomo grasso in frac, invece, mi continua a fissare: mi squadra e si sofferma sulle banconote che adesso tengo in un pugno. Mi fa sentire così a disagio che alla fine mi costringe a infilare – con la mano sinistra – UNO, DUE, TRE pezzi da venti nel suo panama affamato

(quasi quasi comincio ad essere stupita di quello che faccio).

Ma ecco che l’uomo magro ricomincia il girotondo della follia: riempie nuovamente il mio palmo destro ed io, ancora, con la mano sinistra, rimetto tutto nel cappello panama dell’uomo grasso. E così via, nel giro vizioso e sorridente d’affari

(quasi quasi comincio a sentirmi una banconota).

Nevica, il campanile suona le sette, il Corso delle Cose si fa deserto e il buio è spezzato improvvisamente da un flash:

qualcuno, forse più furbo di me, a distanza di sicurezza, ha appena catturato l’immagine ingombrante de I Tre Perfetti Sconosciuti.

20 novembre 2009

UN’IMMAGINE INGOMBRANTE – prima parte

Cammino anch’io lungo il Corso delle Cose. Ho con me la macchina fotografica e spero di trovare qualche soggetto piacevole, rasserenante… un bambino alle prese con un palloncino, una coppia di anziani ancora romantici, magari la risata rumorosa di due amiche adolescenti che attraversano il Corso delle Cose in bicicletta: sarebbe un affascinante scatto in movimento, un bianco e nero di sola leggerezza.

Sono all’altezza del numero civico 26, di fianco al noto negozio di scarpe “I Piedi vissero felici e contenti”. D’istinto lancio il mio sguardo A ORE DIECI. Avverto che il mio soggetto ideale è già in posa davanti alle vetrine della bottega di casalinghi “La Casa non è un Albergo”. E mentre ‘lancio il mio sguardo’ verso un momento di serenità, tengo gli occhi chiusi: voglio che quel soggetto, qualunque esso sia, si mostri a me come un’apparizione.

Quando li apro – e li apro poco dopo, perché la curiosità ha già raggiunto livelli insostenibili – quest’ epifania mi lascia piuttosto perplessa: niente palloncino, anziani o amiche amichevoli. Niente biciclette o risate, neanche di due ragazze post adolescenza. No.

A ore dieci trovo lo scatto perfetto per una fotografia grottesca, che di certo non potrò stampare per confezionare i miei biglietti di Natale.

Sono I Due Perfetti Sconosciuti:

un uomo grasso, in frac, che mangia il gelato sfidando il freddo e chiede l’elemosina in un cappello panama (e sembra già piuttosto sazio, sia lui che il cappello);

e un uomo magro, vestito di stracci, che distribuisce banconote a chiunque gli si avvicini… ma, inspiegabilmente è difficile vedere qualcuno accanto a lui – uomo grasso escluso, intendo.

Speravo, nella mia fotografia, di lasciare spazio al sentimento, alla mia espressione, alla mia libertà creativa e, invece, ho a che fare con un’immagine talmente compiuta da essere ingombrante: non corrisponde per niente alle mie aspettative.

Cosa me ne faccio io de I Due Perfetti Sconosciuti a tutto tondo?

15 novembre 2009

GEMICARE, CIOÈ TRAPELARE LENTAMENTE

L’ Immunizzato, prima di uscire di casa, si guarda allo specchio. Si sistema i capelli, le spalle, le ginocchia e decide che è pronto a varcare la soglia: nudo.

È stato vaccinato ieri contro l’Influenza Umana e adesso non teme alcun contatto. È da parecchi mesi che, per la paura di contrarre il virus, non abbraccia nessuno. Ma oggi, forte del suo vaccino, pensa di aver trovato il coraggio di stringere a sé anche dei Perfetti Sconosciuti.

L’Immunizzato, mentre attraversa il Corso delle Cose, circumcirca A ORE DIECI, incrocia lo sguardo di una signora anziana, velato dalla cataratta e dal tulle di un cappello funereo. Istantaneamente capisce che sarà quella la prima destinataria del suo amore e in quell’intuizione spalanca le braccia.

La signora è distante da lui solo qualche metro e l’Immunizzato, guardandola, comincia la sua danza dell’abbraccio, facendosi sempre più vicino. Sempre più vicino a lei.

Sogna il momento del contatto, quando sentirà, dopo tanto tempo, l’odore di un’altra pelle – pur sotterrata da un cappotto di lana e naftalina. Quando avvertirà la consistenza di un corpo che si impone con il suo peso – per quanto quello dell’anziana sia un peso piuma.

Non si accorge neanche del buzzichio che gli cresce intorno, che si sviluppa lungo il Corso delle Cose come una colonia di germi sul fazzoletto di un raffreddato (un mormorio degno di un criticume, cioè di un’accozzaglia di critici spietati).

L’Immunizzato è ora davanti all’anziana, con le braccia aperte per stringerla al suo petto.

Ma una paralisi imprevista lo ferma nel suo slancio.

Lo separa dalla donna uno spazio vasto quanto un batterio, quanto un microbo di un innocente starnuto: l’Immunizzato, per quanto si sforzi, non riesce in alcun modo non solo ad abbracciare, ma neanche a sfiorare quell’anziana:

colpa del vaccino?

L’anziana, che indovina la sofferenza dell’Immunizzato, non indugia a portargli conforto: si sveste del suo cappotto e lo appoggia sulle spalle dell’Uomo. Infine si avvicina al suo orecchio e lo consola, sussurrandogli un colpo di tosse.

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13 novembre 2009

LA NOTTE DELLE PAROLE CADENTI

A ORE DIECI, trovo cinque parole sdraiate sullo schermo: buzzichio, gemicare, circumcirca, criticume, immunizzato. Le prendo in mano, le annuso. Non mi viene per niente voglia di mangiarle: nel mio tè, almeno per ora, preferisco i biscotti.

Quelle cinque parole immangiabili sono cadute stanotte dal mio dizionario, un dizionario speciale. Quando lo comprai alla bancarella di via Piripicchio In Alta Speranza, il venditore ambulante (un originale mercante sincero) mi avvisò: «È un dizionario che risente dell'autunno... Gli cadono le parole e pian piano ingiallisce». Poi aggiunse timidamente: «Ma in primavera le parole ricrescono e…comunque glielo vendo a un prezzo speciale…». «Bene -gli risposi io, già sicura del mio acquisto bizzarro- almeno avrò da raccogliere per un’intera stagione!».

Le cinque parole di questa mattina sono le prime a cadere con il vento, di notte: rosse e vergognose. Potrei lasciarle seccare ed appiattire tra le pagine di un libro, ma…Se poi si mescolassero a quelle stampate? Se quelle cinque parole cambiassero l’intera storia a un romanzo? L’intero senso a una poesia? L’intera tesi ad un saggio sulla comunicazione di massa?

Un’ipotesi affascinante, certo, però rischiosa. Gli autori dei libri, per lo spavento e l’orgoglio, finirebbero di sicuro per denunciarmi. Mi farebbero gli occhi neri con le accuse di manipolazione alterazione alterità e chissà.

No, mi dispiace, non ho abbastanza coraggio. Non ancora. Per oggi lascio quelle cinque parole sullo schermo. Le osservo, mi presento, faccio un sorriso. E non appena avrò guadagnato la loro simpatia, non appena si saranno confidate, A ORE DIECI di una domenica mattina, le riunirò al caldo di una storia nuova. Di un racconto creato su misura.

 

tazza